infinite possibilità
Il terrore della pagina bianca è una condizione abbastanza recente. È facile pensare ai celebri artisti dei giorni nostri in crisi d’ispirazione: Sorrentino, per esempio, il famoso regista, non è difficile immaginarlo in casa, seduto alla scrivania, smarrito davanti ad una pagina bianca.
Per gli artisti del passato era tutta un’altra questione. Prendiamo Leonardo Da Vinci: riusciamo più facilmente ad immaginarlo per strada, trafelato, con un groviglio di carte sotto il braccio. Cosa c’è scritto in quel malloppo di annotazioni? Regole, precetti, direttive da seguire nella stesura della sua opera. Era un periodo quello, il Rinascimento, in cui tutti pretendevano di dire la loro: nobili, chiesa, corporazioni. I committenti erano scrupolosi, preparati ed esigenti. Non era ammesso alcun errore. Si sviluppava così l’epoca più florida dell’arte italiana.
La scoperta dell’errore
L’arte contemporanea si è emancipata da buona parte dei vincoli del passato. Questa libertà compositiva può essere una condizione favorevole: permette la nascita di opere formidabili, intuizioni scaturite dal nulla e capaci di esplodere meravigliosamente. Un esempio lampante proviene dall’Atelier dell’errore, laboratorio nato come complemento all’attività clinica di Neuropsichiatria infantile di Reggio Emilia. Un luogo dove le opere nascono lasciando che le cose vadano come devono andare e dove l’errore assume il ruolo di protagonista, producendo immagini sbalorditive.

Figura 1 – Atelier dell’errore, Autori vari – Vendicatore di Notte che divorisce dei compagni di classe io mi avvicino e loro si allontanano e dicono che puzzo
Ci sono delle controindicazioni in questa immensa libertà. Una su tutte: il terrore della pagina bianca. Molti artisti contemporanei vi sono incappati e alcuni di loro ne sono usciti solo grazie a colpi da prestigiatore, come quelli che vi racconteremo, partendo dalla storiella dell’assolo con tutte le note in sedicesimo di battuta.
La storiella dell’assolo con tutte le note in sedicesimo di battuta
1995. Durante la stesura dell’album Earthling di David Bowie, nel corso della registrazione di Looking for satellites, Bowie dice a Reeves Gabrels, il suo chitarrista: «qui ci vuole un assolo».
Allora Gabrels: «no, qui un assolo non ci sta.»
Bowie: «si, ci sta, eccome se ci sta.»
Gabrels: «non ci sta per niente.»
Bowie: «t’ho detto che ci sta.»
Vanno avanti così per un po’, non tanto, poi Bowie spiega che è lui il cantante, il frontman, il leader, D-a-v-i-d B-o-w-i-e, e che quindi non si discute: «qui ci vuole un assolo.»
***
Erano ormai tre settimane che Gabrels era chiuso nella sua stanza, cercando un assolo. Aveva detto che voleva essere lasciato solo, aveva bisogno di concentrarsi. In tre settimane non si era più visto in studio di registrazione. Solo Mike Garson, il tastierista, lo aveva incrociato una sera dal benzinaio. Pare stesse controllando la pressione delle gomme.
Bowie decise allora di andare a trovare Gabrels.
Bowie: «A che punto sei?».
Gabrels: «…».
Bowie: «Fammi sentire qualcosa.»
Gabrels: «…».
Bowie realizzò che non si era a nessun punto, Gabrels non aveva scritto niente.
Allora Bowie: «Ascoltami, dividi l’assolo in quattro parti e utilizza in ogni parte una soltanto delle corde della chitarra».
Gabrels: «…».
Un’altra cosa: «devi suonare tutte note da un sedicesimo di battuta».
***
Anni dopo, in un’intervista, parlando di quel periodo, di quell’assolo e delle assurde indicazioni di Bowie, Gabrels dice: «Trovandoti in un ambito tanto ristretto, sei stilisticamente definito dalle tue limitazioni. La limitazione arbitraria di quell’impostazione mi fece fare cose che non avrei fatto normalmente. È realmente, tra quelli che ho registrato, uno dei miei assoli di chitarra preferiti».

Figura 2 – Reeves Gabrels, David Bowie e Gail Ann Dorsey (1997)
Bowie e i suoi musicisti non sono di certo gli unici ad essersi inceppati di fronte alla pagina bianca, che in musica corrisponde al silenzio.
Riempire il Silenzio
Tutte le composizioni musicali sono quindi tentativi, più o meno riusciti, di riempire un silenzio. Tutte, tranne una: 4’33’’ di John Cage (1952). Il compositore statunitense decide di lasciare, per una volta, la pagina completamente bianca: ecco a noi 4 minuti e 33 secondi di silenzio, pietra miliare della musica e della filosofia del Novecento.
Esattamente 10 anni dopo, nel 1962, Federico Fellini è un regista affermato, ha già girato 6 film, più 3 mezzi film, ed ha già vinto 2 Premi Oscar. Tuttavia si ritrova privo di idee, senza ispirazione. Cosa fa? Gira un film che parla di un regista privo di idee, senza ispirazione. Il titolo, Otto e mezzo, è la quintessenza della mancanza di ispirazione: 8 ½ era infatti quel che Fellini aveva provvisoriamente scritto sulla cartella di produzione, essendo il suo film numero 8 e mezzo, in attesa dell’ispirazione per un titolo appropriato. L’ispirazione non arrivò mai e nasceva così 8 ½, capolavoro del cinema mondiale.

Figura 3 – Sandra Milo e Marcello Mastroianni sul set di “8 e 1/2”
Con Fellini abbiamo sprecato battute preziose, ne abbiamo a disposizione 8430 (spazi inclusi) e siamo già alla 4205, e allora vediamo di avvicinarci al nostro obiettivo, andando a parlare velocissimamente di un altro regista e di un’altra storia che ha luogo nel 2005, in Danimarca, e si intitola, la storia, Automavision.
Automavision, come affidarsi al caso
Lars Von Trier, regista odiatissimo. Nel suo Il Grande Capo, commedia del 2006, decide di arrendersi alle infinite possibilità compositive, lasciando il campo all’unica entità capace di annientarle definitivamente: il caso. Von Trier utilizza per le riprese del film una tecnica che verrà poi definita Automavision e consiste nell’utilizzare una macchina da presa senza nessun operatore dietro, collegata ad un computer che stabilisce le inquadrature e i movimenti di macchina in modo automatico e del tutto casuale. Il risultato? Teste tagliate, attori fuori dall’inquadratura, immagini sfuocate: un film straordinario.
Mentre Von Trier faceva riprese a caso, mozzando teste di attori, andava in onda la puntata dei Simpson nella quale l’architetto Frank Gehry accartoccia e getta a terra un foglio di carta, usandone le forme casuali per il progetto dell’auditorium di Springfield. L’episodio perseguita Gehry tutt’oggi e lo rende, agli occhi di molti, l’architetto privo di metodo. Al contrario, Gehry non ama la libertà compositiva e anzi sostiene che la circostanza più spaventosa per un architetto si verifica se il committente gli lascia, appunto, carta bianca. Alla riuscita di uno dei suoi progetti più celebri, la Walt Disney Concert Hall, Gehry ha spiegato come siano stati decisivi i severissimi vincoli acustici che lo hanno guidato nella definizione del progetto.

Figura 4 –Walt Disney Concert Hall di Frank Gehry
Esiste un curioso caso isolato, il caso di un artista completamente impavido davanti alla pagina bianca: Pier Luigi Nervi. Roberto Longhi, il più importante critico d’arte italiano del Novecento, lo ha definito come l’unico in grado di realizzare una perfetta sintesi tra tecnologia ed estetica.
Il pensiero estetico di Pier Luigi Nervi
L’ingegner Pier Luigi Nervi aveva delle convinzioni estetiche molto chiare, che si potrebbero sintetizzare, in campo architettonico, con un sistema di 2 equazioni:
Arte = Verità
Verità = Statica
quindi
Arte = Statica
La pagina da cui partiva Nervi non era mai bianca: vi era sempre sullo sfondo una filigrana appena abbozzata, raffigurazione di questa verità riconosciuta che è la Statica.
In architettura, nella pratica del costruire correttamente, il rispetto delle leggi della statica è una condizione ovviamente necessaria. Necessaria ma non sufficiente secondo Nervi. L’opera architettonica non deve semplicemente rispettare le leggi della statica, deve esserne plasmata, deve essere modellata dalle forze cui è soggetta, fino a diventarne una fedele rappresentazione.

Figura 5 – Palazzo dell’Esposizione Internazionale del Lavoro (Pier Luigi Nervi, 1961)
Ecco risolto il problema della pagina bianca in architettura: comporre la forma architettonica secondo le leggi della Statica. Ma la Statica non è per tutti semplice da comprendere, figuriamoci da modellare per creare architettura.
Dobbiamo allora introdurre un altro personaggio, Brian Eno, ed una sua creazione, Oblique Strategies: un mazzo di carte. Ogni carta contiene un aforisma, una frase un po’ criptica che ha lo scopo di aiutare l’artista a ritrovare l’ispirazione nei momenti di smarrimento. La frase di questo oggetto che fa al caso nostro è:
«onora il tuo errore come un’intenzione nascosta.»

Figura 6 – Oblique Strategies (Brian Eno & Peter Schmidt)
Onorare l’errore come un’intenzione nascosta
Si potrebbe quindi consigliare di progettare, in ogni caso, tentando di seguire i suggerimenti della Statica. In alcuni isolati casi, la si saprà ascoltare e si costruiranno certamente edifici più sicuri, meno costosi, più veri. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, vista la noncuranza della materia tipica del nostro tempo, la Statica verrà svilita, oltraggiata, insultata. Ma non sarà una sconfitta, no, perché si commetteranno degli strafalcioni stupefacenti, glorificando così l’errore, fondamento dell’arte del secolo scorso e, pare, anche di questo nuovo splendido millennio.
Studio Nikuraze
Articolo apparso sul 1° numero della rivista Tech.A, magazine ufficiale di ASSO Ingegneri e Architetti dell’Emilia Romagna.