Architetti mancati, ingegneri perduti (e geometri perdigiorno)
Capitava già ai tempi dell’Università, in giornate grigie e lunghissime, che qualcuno saltasse fuori dicendo che s’era stufato. Durante un’interminabile lezione di Tecnica delle Costruzioni, diceva «basta, me ne vado». Aspetta un attimo che smetta di piovere e vengo anch’io. «No, me ne vado per sempre, cambio facoltà.» Succedeva spesso, in continuazione, poi qualcuno spariva sul serio. Dov’è finito? Che fine ha fatto? Per mesi nessuna risposta. Poi, una sera, lo incontravi che camminava a due metri da terra in via Petroni: festeggiava un 30 e lode, il terzo della sua nuova vita spensierata.
Anche oggi capitano situazioni analoghe. Entra in Studio una collega, è appena stata in Comune, e dice che basta, non si può andare avanti così, lei si cerca un lavoro serio. Un altro al telefono ti annuncia che forse aprirà un ristorante in riviera, oppure un bar. Di questi non so dirvi come andrà a finire, sono storie recenti. Cambieranno davvero lavoro? O continueranno a lamentarsi? Per quanto? Non lo sappiamo.
Posso tuttavia raccontarvi altre storielle, storielle di cui sappiamo il finale. Storie di ingegneri, architetti, aspiranti ingegneri o aspiranti architetti, che avevano imboccato una certa strada, ma che poi, in un modo o nell’altro, hanno deciso di fare altro nella vita.
Un maledetto imbroglio
Carlo Emilio Gadda si iscrive nel 1912 al Politecnico di Milano per far contenta la madre e si laurea in ingegneria idraulica il 14 luglio del 1920 con una tesi sulle Turbine ad azione Pelton con due introduttori. Voto: 90/100. Esercita la professione fino al 1940, ma già dal ’31 inizia la virata verso il mondo letterario. Nel ’27 scrive all’amico poeta Ugo Betti conosciuto sotto le armi: «Vivo ora nel campo tecnico, così lontano da ogni alfabetismo, così assorto in ferraglie, così povero di idee generali, così affogato nel lavoro bestiale». Pian piano si allontana dal chiuso e dalla muffa dell’ingegneria per dedicarsi alla letteratura. La sua produzione letteraria non sembra seguire l’impostazione razionale del mondo dell’ingegneria, sembra piuttosto una fuga. Del suo capolavoro, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, non c’ho capito niente, è tutto ingarbugliato, dopo due mesi di fatica l’ho lasciato a pagina 80. Se però vi viene voglia di conoscere la storia potete ripiegare sul film di Pietro Germi, Un maledetto imbroglio (1959), con Claudia Cardinale, Franco Fabrizi e lo stesso Germi nei panni del commissario Ingravallo.

Figura 1 – Pietro Germi e Claudia Cardinale, Un maledetto imbroglio (1959)
Sempre nel 1959 usciva Intrigo Internazionale, celeberrimo capolavoro di Hitchcock. Ad un certo punto c’è una scena dove un signore grasso tenta di salire su un autobus probabilmente per recarsi al lavoro, ma le porte gli si chiudono in faccia. Chi è quel signore? Non importa, non ha alcun ruolo nella trama del film. Ha però un ruolo cruciale nel nostro racconto, perché quell’uomo è Alfred Hitchcock. Era un’abitudine consolidata quella di comparire nei suoi film per brevissimi camei e lo stesso Hitchcock ne parla nel libro intervista con François Truffaut, spiegando la sua comparsa “strettamente funzionale, perché bisognava riempire lo schermo. Più tardi è diventata una superstizione e infine una gag”. La cosa assume una luce intrigante se si considera che Hitchcock, prima di intraprendere la carriera di regista, ha studiato ingegneria seguendo dei corsi serali di elettrotecnica e acustica all’Università di Londra. Non si laurea, ma trova lavoro presso una fabbrica di cablature elettriche, dove pare che per 15 scellini alla settimana dovesse calcolare la misura e il voltaggio di cavi elettrici. Di lì a poco trova un posto da disegnatore per una società cinematografica, lavoro che svolge di notte, in quanto di giorno è ancora lì a sbarcare il lunario con i cavi elettrici. È in brevissimo tempo che gli eventi casuali della vita portano Alfred Hitchcock a diventare, appunto, Alfred Hitchcock. Tornando ai camei, ed in particolare alla scena dell’autobus, che fa di quel personaggio un Fantozzi ante litteram, ci avventuriamo in un’interpretazione dei camei un po’ forzata e bislacca. Questa interpretazione strampalata prende piede dalla circostanza che Hitchcock interpreta spesso un personaggio anonimo ed annoiato, qualcosa che potrebbe somigliare ad un funzionario comunale. Ecco che Hitchcock con quelle comparsate esorcizzava una sua paura, la paura di un destino crudele che lo avrebbe fatto finire in un ufficio ad archiviare pratiche. Ma il destino si è rivelato magnanimo e collaborativo, sbattendogli appunto le porte in faccia.
Utopie sonore, tecnologiche e sociali
Rimaniamo a Londra, città natale del maestro del suspance, ma per parlare d’altro. Roger Waters, Richard Wright e Nick Mason sono tre studenti di architettura alla Regent Street Polytechnic. Siamo a metà degli anni ’60, è da poco uscito il Rubber Soul dei Beatles e i tre aspiranti architetti formano un gruppo dal nome un po’ scontato: Architectural Abdabs. E’ l’incontro con uno studente di pittura, Syd Barrett, a cambiare tutto, cominciando dal nome: Pink Floyd. Il resto, come si dice in questi casi, è storia. Ma che storia è? L’architettura c’entra qualcosa? Sono gli anni della sperimentazione totale. Musica ed architettura non sono certamente escluse, con i Pink Floyd da un lato e Buckminster Fuller e gli Archigram dall’altro. Utopie sonore, tecnologiche e sociali, che cercano degli sbocchi improbabili. Come i live dei Pink Floyd, tra i primi ad arricchire i concerti con psichedelici light show, che raggiungono le dimensioni che conosciamo grazie al lavoro di un altro personaggio, un certo Mark Fisher, architetto laureato all’Architectural Association. Sarà lui ad allestire il primo spettacolare tour dei Pink Floyd, quello di Animals del 1977.

Figura 2 – Walking city (Archigram)
L’idea utopica di Instant City, forse l’opera più visionaria degli Archigram, potrebbe aver trovato la sua più concreta realizzazione proprio nelle mega tournée, oggi all’ordine del giorno, che prendono piede in quegli anni grazie a questo gruppo di visionari architetti mancati. Dopo il successo del tour di Animals, Fisher si occuperà, sempre per i Pink Floyd, dell’allestimento del tour di The Wall. Negli anni a venire allestirà i tour dei Rolling Stones (Voodoo Lounge Tour, 1994-95) e degli U2 (PopMart Tour, 1997). Con lui le utopie architettoniche degli anni ’60 assumono un suggestivo valore distopico, ma magari ne scriviamo nel prossimo numero di Techa, forzando un po’ la definizione e raccontando di Fischer tra gli architetti mancati di cui vorremo parlarvi.

Figura 3 – Pink Floyd, Live in Berlin (21 luglio 1990)
L’uovo alla kok
Non è chiaro cosa sia poi diventato Aldo Buzzi, che pure nel 1938 si era laureato in architettura al Politecnico di Milano. Pare che a portarlo “sulla cattiva strada” sia stato Leonardo Sinisgalli, ingegnere fallito. Letteratura, editoria, ma soprattutto cinema: lavora con Fellini, Comencini ed Alberto Lattuada. Cosa faceva questo Buzzi? Quel che capitava: sceneggiatore, aiuto regista, scenografo, costumista, collaboratore alla regia. Tantissimi film quindi. Ma quel che interessa qui raccontare è il suo incontro artistico con Saul Steinberg, anche lui architetto mancato. I due cominciano a produrre diverse opere: Buzzi scrive, Steinberg disegna. La loro opera più celebre è L’uovo alla kok, manuale di cucina.

Figura 4 – L’uovo alla kok, disegno di Saul Steinberg
Quel che rende questo libro gustosissimo è, oltre alle ricette, il gusto per i dettagli, piccoli consigli improbabili, validi ed efficaci (provare per credere). Dopo aver lavato l’insalata non toglierle tutta l’acqua, l’acqua non diluisce il sapore dell’olio, anzi lo mette in risalto. O anche: Per un gustoso uovo al tegamino, prima solo il bianco, trattenendo il tuorlo con un cucchiaio, il tuorlo lo si mette dopo, quando il bianco comincia a rapprendersi; così si evita il contatto, troppo diretto e bruciante, col fondo del tegamino. Riguardo Fellini, ci racconta che usava aggiungere un cucchiaio di whisky nel minestrone di verdure, e che “quando l’irreparabile passare del tempo avrà trasformato anche i suoi film in comiche, Fellini verrà ancora ricordato, e forse benedetto, per questo semplice ma positivo contributo all’arte di mangiar bene”. La noce moscata? “Deve essere pochissima, è una regola generale: un pizzico è troppo: un’ombra, un’idea, un niente, un nonnulla. I francesi dicono un soupçon, un sospetto; cioè si deve sospettare che ci sia, ma non esserne certi”.
Architetto, architetta o architettrice?
Herbert Spencer era un ingegnere, anche se Wikipedia lo presenta come filosofo britannico di impostazione liberale, teorico del darwinismo sociale. Nato il 27 aprile 1820 a Derby, in Inghilterra, fa studi scientifici e diviene ingegnere delle ferrovie a Londra. L’occasione di abbandonare il lavoro di ingegnere gli è data da una piccola eredità, la quale gli permette di seguire la vocazione di filosofo. Tra tutte le sue opere risulta particolarmente interessante Filosofia dello Stile, che, ad essere onesti, è un’opera che non ho letto, non l’ho trovata da nessuna parte, anzi, approfitto, se qualcuno ce l’ha e me la vuol prestare, o vendere, può scrivere alla redazione. In pratica pare che Spencer avesse dato una definizione di Stile molto in voga ai suoi tempi, ripresa da numerosi autori: lo stile più alto è quello di chi dice il maggior numero di cose con il minor numero di parole. Nel nostro ambito, di ingegneri e architetti, questo pensiero è molto interessante, almeno per un paio di ragioni. Innanzitutto tale definizione costituisce una generalizzazione del concetto di minimo strutturale, utilizzato in architettura e in passato cantato in Italia da svariati personaggi. Tra gli ultimi, solo per ordine cronologico, Sergio Musmeci, per il quale bisogna ricercare la soluzione che, a parità di utilità, utilizza la minor quantità di materiale. È un dibattito oramai superato quello del minimo strutturale, non se ne sente parlare molto, è noioso mi rendo conto, scusate. Al contrario, risulta di enorme attualità, e qui la seconda ragione di interesse per il pensiero di Spencer, la questione cruciale se sia corretto appellare persona di sesso femminile laureata in architettura, e che abbia superato con successo l’esame di stato iscrivendosi successivamente all’albo degli architetti, architetto, architetta o, come qualcuno propone, architettrice.

Figura 5 – Ponte sullo stretto di Messina, Sergio Musmeci
Fedeli alla linea
Luigi Ghirri era un geometra mediocre, sfaticato e perdigiorno, anche se Wikipedia lo presenta come importante fotografo italiano. Della sua attività di geometra ci racconta Gianni Celati in uno scritto apparso in Lezioni di fotografia (Quodlibet Compagnia Extra, 2010): mentre era al lavoro spesso si chiudeva nel gabinetto a leggere: “Ghirri, venga fuori, lo sappiamo che sta leggendo!”. Insomma, non ne voleva sapere di rilievi, catasti, terreni e confini. Si dedicherà alla fotografia, partendo da uno stile amatoriale, arrivando col tempo a definire un’estetica elegantemente iconica.

Figura 6 – Epica Etica Etnica Pathos, CCCP fedeli alla linea, 1990 (foto di Luigi Ghirri)
Il suo lavoro di fotografo pare tanto autoriale quanto collettivo: stringe amicizia con scrittori, musicisti, fotografi. Tra i suoi soggetti più noti: la campagna emiliana, Aldo Rossi, i distributori di benzina. Personalmente trovo inarrivabili le sue foto di interni, diventate spesso copertine per dischi di musica classica della RCA.
Qui vorrei segnalarvi il lavoro svolto per l’album dei CCCP Epica Etica Etnica Pathos, dove, tra una batteria e un vaso di fiori, pare sia riuscito a fotografare anche l’aria.
Studio Nikuraze
Articolo apparso sul 4° numero della rivista Tech.A, magazine ufficiale di ASSO Ingegneri e Architetti dell’Emilia Romagna.